CHI SIAMO

Voci di dentro è una associazione di volontariato nata nel 2008 e che si occupa di disagio. Voci di dentro è un’associazione-organizzazione a 360 gradi che intende dare nuove chance a chi di chance ne ha avute poche, aprire porte e abbattere muri, diffondere valori di giustizia e rispetto dei diritti, mettere semi per un mondo migliore dove alla base di tutto c’è l’uguaglianza sociale ed economica delle persone. Il nostro lavoro si svolge dentro il carcere e fuori dal carcere. L’associazione è impegnata in un insieme di attività dedicate alla diffusione del diritto penale minimo, alla eliminazione di un sistema penale fondato sulla punizione senza fine, alla promozione dell’uso delle pene alternative, al reinserimento e all’aiuto delle persone in stato di disagio, con particolare attenzione a chi si trova, o si è trovato nel passato, in detenzione. Dieci anni di lavoro dentro e intorno al mondo del carcere, a contatto diretto con detenuti e con strutture e figure che si occupano di sicurezza, rieducazione e controllo, compreso il sistema penale e giudiziario, ci hanno permesso di comprendere molto in questo campo. Ad esempio che la pena del carcere e lo stesso innalzamento delle pene non sono un deterrente; che in carcere in molti casi si perfezionano comportamenti e capacità devianti; che i danni sociali e culturali delle istituzioni totali sono maggiori dei benefici; che la pena non è non può essere retributiva (mai ci sarà pareggio tra un male con un altro male); che il carcere non rieduca visto che 7 detenuti su 10 ritornano in carcere. Abbiamo compreso, ancora, che i detenuti sono persone che - all’interno di un sistema sociale economico-finanziario che vede al primo posto l’utilitarismo, il profitto, il consumo, l’uso, il dominio - hanno “ferito” il prossimo approfittandosi di persone più deboli, usando violenza e sopraffazione, pensando unicamente a soddisfare i loro interessi, vedendo l’altro come ostacolo e non come persona; i detenuti sono individui marginati e marginali: molti tra loro non hanno avuto chance, altri scientemente (chi più e chi meno) hanno compiuto scelte sbagliate, altri ancora o non sono stati capaci di vedere altre scelte, o non avevano che una sola scelta, o sono finiti nel circuito penale per un errore di un momento. Persone che fanno soffrire e che a loro volta soffrono; disuguali in un mondo ancora ingiusto governato oggi più di ieri da fanatismi e populismi; deumanizzati e deumanizzanti; i detenuti all’interno del carcere diventano vittime di una istituzione totale che nei fatti e a dispetto dei tanti propositi (art. 27 della Costituzione) li spoglia dei loro diritti, applicando sistemi infantilizzanti, deresponsabilizzandoli e rinchiudendoli tutti assieme (piccoli ladruncoli alle prime armi, mafiosi e camorristi, poveri e ricchi, stranieri, giovani e vecchi, malati e sani, dipendenti da sostanze, alcool, gioco, colletti bianchi, eccetera) in sezioni e celle molto spesso per 16 ore al giorno; i detenuti (specialmente quelli con una lunga storia di carcere alle spalle) pur essendo vittime e pur solidali fra loro (se e quando serve) spesso ripropongono le stesse dinamiche sociali (discriminazione, sopraffazione, violenza) che “governavano” la loro vita prima di finire in carcere; i detenuti sono contenuti in luoghi angusti dove rieducazione e attività risocializzanti sono solo parole per effetto di una organizzazione – burocratizzazione che privilegia innanzitutto la sicurezza, il contenimento, la punizione fine a se stessa. Non a caso in media negli istituti penitenziari italiani ci sono un agente ogni due detenuti, mentre c’è un solo educatore ogni 60 detenuti; i detenuti (ma un po’ tutti in questa società moderna dell’apparire, dell’avere, del consumo) sono fragili emotivamente e psicologicamente e, per effetto dell’isolamento sociale, di una prospettiva ridotta, di una vista che si ferma a pochi metri dai loro occhi, di una povertà nei rapporti sociali (per anni si relazionano solo tra loro e solo con persone che ordinano dunque all’interno di uno spazio dove la disparità di potere è regola), l’incontro-relazione col mondo esterno e cioè con volontari e studenti tirocinanti spesso può venire travisato e reinterpretato. I volontari di Voci di dentro non sono giudici, non sono preti, non sono educatori/rieducatori con una verità assoluta da imporre. Sono semplicemente delle persone che portano all’interno del carcere e nelle varie attività dell'associazione progetti di lavoro improntati alla diffusione della cultura, della conoscenza, del rispetto dei diritti per una civile convivenza. Persone che incontrano altre persone che hanno sbagliato (questo non va mai dimenticato) ma che per questo, tali persone non sono diventate uno sbaglio, un errore, uno stigma impresso come un marchio nella carne. I volontari e i tirocinanti sono un ponte e non un muro, una porta aperta e non una porta chiusa. Il loro lavoro è un lavoro di gruppo e nei gruppi di lavoro. Dunque non lavoro individuale. Insieme, nella discussione, nelle relazioni, nel dialogo e attraverso le varie attività, si cerca di costruire una complessità di azioni che possono rimuovere e favorire la rimozione di pregiudizi, distorsioni cognitive, esclusioni, dogmi, rappresentazioni della realtà basate su luoghi comuni. Una complessità di azioni contro gli stereotipi per eliminare diffidenze, rimarginare ferite, togliere corazze (per difesa e per offesa) fatte da anni di vita carceraria. Una complessità di azioni per far scomparire il carcere (per quanto possibile ma facendo il possibile) e far comparire la società civile, la società del rispetto, della regola uguale per tutti: un luogo dove si comincia a costruire e a praticare un luogo diverso, quello del fuori e non del dentro. Un luogo dove si può pensare un futuro diverso da quello passato e dove il carcere è sempre più lontano, mentre si fa più vicina una “città” che unisce e non discrimina e tantomeno separa. Dove insieme (detenuti e volontari ) si liberano entrambi dallo stigma e dall’etichetta impressa dal sistema sociale, mediatico e penale. Un percorso di crescita per tutti e di responsabilizzazione secondo quanto recita l’articolo 27.

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