domenica 27 ottobre 2019

Prima penale, cella 13: quattro detenuti e un malato

Nicola è un uomo di una settantina d’anni ed è detenuto nel carcere di Pescara. Da molto tempo è immobile, allettato notte e giorno in una piccola “camera di pernottamento” come deve  oggi essere chiamata la cella  in base alla circolare del Dap del 31/3/2017 inviata a Provveditori e Direttori degli Istituti di pena. Nicola soffre di una serie di patologie (insufficienza renale, infezioni varie e ha da poco subito un infarto). Peserà poco più di quaranta chili. La sua pelle è tesa in viso e il suono che ne fuoriesce dalla bocca non sono parole ma appunto lamenti di un uomo che soffre. E’ inappetente, si alimenta a fatica, è incontinente e vive in una cella angusta, fatiscente e degradante, nella prima sezione penale, “camera” 13, con altri quattro detenuti.   . ULTIM'ORA: Nicola è stato finalmente trasferito in ospedale.

 Tra i quattro detenuti ci sono anche io e perciò conosco bene la situazione e pertanto di fronte alla vista continua di questo esile corpo di anziano lasciato alla mercé di persone che non hanno strumenti per assisterlo, ho segnalato la sua condizione al personale di polizia penitenziaria,  alla direzione penitenziaria e a quella sanitaria. Si sono subito attivati, è intervenuta anche l’area sanitaria ed è venuto in visita alla nostra cella lo stesso Garante dei detenuti professor Cifaldi.

Ma la situazione rimane tragica. A quasi due settimane dalle visite ufficiali nulla è cambiato: Nicola resta immobile nel suo letto, un vecchio uomo quasi trasformato in un utensile pensante “anima presente in terre estranee”. Io e gli altri tre detenuti  (che ogni giorno siamo inevitabilmente costretti a subire anche i mali odori dovuti dalle sue incontinenze) ci prodighiamo ad assisterlo con il suo “piantone” (assistente alla persona sempre secondo la nuova terminologia imposta dal Dap).

Come può una pena detentiva divenire così cieca fredda e disumana? Credo che questa storia sia l’ennesima prova del fallimento di un sistema strutturale alla deriva che non schiaccia solo il diritto e i diritti delle persone detenute  (visto che chi amministra è privo – ed è privato -  di ogni strumento), ma anche di coloro, che in questo luogo, ogni giorno ci devono lavorare (il personale di Polizia Penitenziaria). A questo punto bisogna recepire la cultura della vergogna per recepire la cultura della dignità. Cioè bisogna indignarci per smettere di essere dignitari così da divenire dignitosi. Perché prima d’ogni cosa c’è la dignità e la libertà che non sono negoziabili.  

Concludo citando Pietro Calamadrei: « ... il riconoscimento della dignità specifica e dei diritti uguali e inalienabili di tutti i membri della società umana è la base di libertà, giustizia e pace nel Mondo…La libertà è come l'aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare».

Rosario Lucarelli

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