martedì 1 ottobre 2019

Fine vita, carceri: un contributo del nostro Domenico S.


Domenica mattina da "prima pagina" (Radiorai3) condotta da Annalisa Cuzzocrea (Repubblica) ho estrapolato gli interventi di due ascoltatori che mi hanno particolarmente colpito non tanto per gli argomenti attuali —soprattutto il "fine vita" — ma per il calore e la passione dei loro interventi.
Scontato che l'argomento "carcere" , pur scontato, possa rientrare nel progetto “in carta libera” , ritengo che anche il fine vita dovrebbe essere un argomento da affrontare. Dal podcast ho sbobinato due interventi
D.

FINE VITA
Roberto, da Novara
Dico innanzitutto che nell'esprimere le mie riflessioni, sono fortemente condizionato dal mio lavoro di infermiere che da oltre trent'anni svolgo in terapia intensiva. Proprio per il lavoro che svolgo ho seguito il dibattito sul "fine vita" e ascoltato la levata di anatemi, distinguo, prese di posizione, presunte assolutezze. Sono rimasto molto colpito, sono condizionato dal fatto che io lavoro in questo campo e sono sempre accanto alle vicende e alle storie irripetibili di ciascuno di noi. Perché sono storie che ci riguardano. Tutti.
Avvicinarsi a una persona alla quale la vita, in un secondo gli gioca un tiro e tutto si solleva da terra e poi , qualora tornasse la normalità, nulla sarà più al suo posto. Tutto cambia per questa persona e tutto cambia anche per la sfera familiare, quando e se questa persona ce l'ha, perché — e ce lo dice anche l'ISTAT -demograficamente la società italiana è completamente e profondamente cambiata. Ciò che io osservo oggi è che, come nucleo familiare, come persona, l'approccio è diverso: io sto monitorando una società che è diversa , irriconoscibile rispetto a 10, 15, 20 anni fa, per non parlare di 30 anni fa Le persone che accedono a terapie intensive, in fase acuta oppure per uno svolgimento peggiorativo di una situazione cronica talvolta, e nella migliore delle ipotesi sono accompagnate da familiari chiamiamoli portavoce del diretto interessato— e sperando che ci sia il sentimento dell'affettività. Sempre più spesso le famiglie sono monocomponenti , per cui c'è una solitudine sempre più diffusa. lo non ho mai visto e vissuto e affrontato, come ora, numeri epocali di situazioni con persone che sono sole e noi non solo ci preoccupiamo di curarle, ma anche di risolvere il caso di un cane che è solo e chiuso nella casa di questa persona e qualcuno di noi dovrà fare qualcosa. A volte mancano gli interlocutori che difendano e tutelino la persona affinché non intraprendano percorsi di non cura 
Domanda di A. Cuzzocrea: "mi faccia capire...lei teme che una legge sul fine vita sia un problema per queste persone?...." Roberto: Si, E' quello che dico è la legge deve fare chiarezza. Nella mia esperienza io non ho conosciuto pazienti che avessero paura di morire, ma avevano paura di soffrire nella solitudine. Quando una persona, un paziente è cosciente o conserva un barlume di coscienza ha solo il desiderio — e lo dice, lo esprime, te lo fa capire — di avere attorno volti amici, volti familiari di persone con le quali ha attraversato la vita.
A. Cuzzocrea: per il lavoro che svolge e per la sua esperienza, la sua è la stessa preoccupazione che più volte la Chiesa ha riportato nell'affrontare il discorso sul fine vita. C'è il pericolo che si acceleri il destino di persone proprio perché lasciate sole, proprio perché scartate dalla società, deboli...E' un pericolo che la legge deve evitare ed è una ragione per cui è necessaria una legge che tenga conto di tutto. Tenga conto dei margini di libertà, tenga conto dell'insopportabilità del dolore oltre una certa soglia, della volontà del paziente, ma anche della sua condizione. Occorre molta saggezza da parte del legislatore e, come ha affermato Giuliano Pisapia, uno scontro ideologico serve a niente, non fa del bene alla società e non va incontro a quei malati, disperati, che chiedono una legge sul fine vita.

CARCERI
l'ascoltatore non ha lasciato il nome:
“Dopo essere andato in pensione nel lontano 2005, per 5/6 anni ho frequentato la Casa Circondariale dì Rovereto, da dove parto, quale consulente delie problematiche del detenuti. L'ho fatto perché durante ia mia attività di magistrato man mano in me andava maturando la decisione di andare a vedere quale fosse la reale situazione di coloro che, come giudice, avevo condannato e la effettiva funzione del carcere. Devo dirle che la presa d'atto di questa realtà è stata per me sconvolgente, ma gratificante sul piano umano. Se il livello di civiltà di un Paese si evince anche dallo stato delle sue carceri, bisogna convenire che nei nostro paese il livello di civiltà è decisamente basso. La normativa penitenziaria è ancora ispirata a una cultura punitiva, persecutoria e giustizialista nonostante il carcere abbia dimostrato nel tempo la sua assoluta inadeguatezza ad assolvere alla sua funzione e in contrasto con dettato dell'Art. 27 della Costituzione che prevede l'umanità nel trattamento — e per questo sono piovute condanne e l'esecuzione della pena che tenda alla rieducazione e tutto ciò nella banale considerazione che il detenuto, un giorno dovrà tornare nella società ed è interesse di tutti che egli torni in pace e in armonia e pronto all'adeguato reinserimento Non ritiene lei che sia necessario squarciare il velo del silenzio, sceso su queste tematiche e specialmente in questi ultimi tempi?

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